‹‹Mi piacerebbe che lo leggessi›› disse porgendolo a Rivera.
Rivera guardò il cartone grigio della carpetta, sul quale era scritto a pennarello Dalle rovine. Sotto, in caratteri molto più piccoli, c'era il nome dell'autore.
‹‹Ti chiami Alexandre Tapia?›› chiese Rivera.
‹‹Così mi chiamo›› disse Alexandre accendendosi una sigaretta. Una nube gonfia di fumo verdastro si disperse a fatica nell'aria calda del soggiorno.
‹‹Puoi leggerla senza problemi. È in italiano, l'ho tradotta anni fa per un amico››.
Rivera sbirciò i fogli, ingialliti e martoriati da impenetrabili muri di testo battuto a macchina.
‹‹La lingua non conta›› disse Alexandre. ‹‹Un tizio una volta ha detto che la sua unica patria era la sua lingua, ma per me sono stronzate. La lingua è un muscolo. Serve a stare al mondo, a farti rispettare. Se la usi come si deve, o incontri qualcuno che sa usarla, allora ti diverti. La patria di un uomo sono i germi della sua saliva››.
(Luciano Funetta, Dalle rovine, Tunué)
Qualsiasi significato si voglia spillare a questo scorcio di racconto, c'è una sola cosa che viene da pensare al termine della lettura di Dalle Rovine: Luciano Funetta la lingua la sa usare bene, molto bene. Mi riferisco a quella scritta, il mucchio di grafemi su carta, per intenderci. Parole che scivolano, strisciano, si attorcigliano alla gola, con un'eleganza che attira e tira, proprio come i serpenti di Rivera.
Un libro che cattura, senza sbalzi né sbavature, avvincente nel suo garbo, cazzuto nella trama.
Mai banale, mai scontato, e soprattutto mai volgare. Parlando dell'emisfero del porno, lo scivolone nello stereotipo è ad un passo. Non per Luciano Funetta, che riesce a sviscerare una trama tosta, con toni baritonali.
E no, non siamo di fronte al romanzo di formazione, al lungo percorso fatto di mille e una pubblicazioni, no (anche se di racconti pubblicati alle spalle ne ha, perché i miracoli li fanno i santi). Ma si tratta, pur sempre, del suo primo romanzo. Insomma, se questo è lo svarione iniziale, posso solo aspettarmi tanto di buono dalla ditta Funetta.
Il merito va anche all'editing e a chi ha saputo vederci qualcosa di buono in questo romanzo.
Che, a mio modesto issimo parere, merita a pieno titolo il post-it di "papabile" allo Strega.
Tien' a ment', direbbe il vecchio fesso.
domenica 22 maggio 2016
sabato 23 aprile 2016
Effetto Kobane calling
Ogni viaggio ti lascia qualcosa dentro, ma da uno come
Zerocalcare una cosa così non te l’aspetti.
E forse è vero: queste sono cose
che ti cambiano, nessuno escluso.
Sono ancora scossa.
È un libro carico, dentro c’è tanto.
C’è la capacità di raccontare
la storia di tanti, di un popolo se ci pensi, vista con gli occhi di chi si
fida(va) solo di Rebibbia; c’è il sorriso che accompagna ogni libro di Michele,
una risata almeno te la devi fa, perché non è che per racconta’ le cose toste
devi per forza usare il metodo Barbara D’Urso;
c’è la geopolitica spiegata in un modo accessibile e comprensibile a tutti, ma
proprio a tutti, pure alla Sciura Maria, della quale mi parlavi; c’è il romanesco,
che per me è ‘na botta di vita, perché suona bene e perché è il mio modo di
restare aggrappata a quella realtà che tanto mi manca; ci sono quei volti, che
sembrano così simili al mio, e che in realtà lo sono, solo con più
cazzimma; c’è quel cielo generoso di stelle, che Michele è riuscito a far
parlare usando solo il bianco e il nero.
E poi ci sei tu.
Risparmio il giudizio tecnico, per decenza, la mia.
Un'ultima cosa: ho letto Zerocalcare e vorrò leggerlo ancora,
ancora una volta.
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