martedì 28 ottobre 2014

Avrei voluto vivere Berlinguer

Non ero ancora nata, che gran sfortuna, verrebbe da dire. Gli anni d’oro del Comunismo in Italia. Enrico Berlinguer.
La prima cosa alla quale si pensa, parlando del leader del PC italiano, sono i suoi funerali.
Una San Giovanni anomala, ingigantita esponenzialmente dalla folla che trabocca, quasi ad invadere interi municipi.
Studio il marasma di gente, i singoli volti: quella folla ha perso un padre; le madri, il proprio figlio; un Pertini addolorato, accasciato sulla bara, in un’intima confessione, tra milioni di persone.
Da dove proviene questo dolore così viscerale, per qualcuno che in fondo è estraneo ai propri geni?
La storia raccontata non basta a spiegare il pathos.
Allora riguardo le immagini dei discorsi, le sue apparizioni istituzionali, le pellicole, forse qualche tassello tornerà al suo posto.
Berlinguer, il limpido che non esiste. Padre di un partito italiano, fiore all’occhiello europeo.
La sobrietà e l’estrema calma di un uomo in lotta. Il tono della voce tiepido di fronte ad una platea ostile come quella del Cremlino. Un uomo poco incline all’incudine. Solo, a sfidare una nazione.
L’intelligenza di carpire la criticità storicamente viva e l’azzardo misurato del compromesso storico: aprire la strada al rinnovamento dei partiti, il disegno delle larghe intese come unica scelta possibile.
L’estremo ritegno di fronte ai fischi facili, le difficoltà di un gracile Davide contro un Golia certo.
Non si arrende Berlinguer, e lo fa per la convinzione nella linea politica e per quel profondo rispetto in chi crede in un ideale.Va avanti.
Durante il suo ultimo discorso a Padova, Berlinguer si aggrappa ad una dignitosa forza di volontà. Sfinito e stremato, tenta di coinvolgere i lavoratori venuti ad ascoltarlo.
Mette e toglie gli occhiali varie volte: l’esser fedele a un pensiero trascritto e allo stesso tempo guardare negli occhi la classe operaia. Le parole faticano a pronunciarsi, il corpo è stanco. A stento prosegue, al punto che la folla comincia a urlare con affetto preoccupato: basta Enrico.
Invano.
Non può fermarsi, sta incitando le persone all’impegno politico concreto, non può cedere alla sconfitta, finanche fisica.
Quello sarà il suo ultimo intervento, nel pomeriggio Enrico Berlinguer entrerà in coma. Irreversibile.
L’11 giugno 1984 la prima pagina dell’Unità griderà “è morto”. Inutili le precisazioni, il soggetto è talmente ingombrante da esser sottinteso.
La salma lascerà la città di Padova sotto una pioggia incessante e un applauso educato della folla.
A Roma, ad attenderlo, un sole primario in una città rossa. Lo spaccato del popolo italiano è tutto lì. Anche i non comunisti verranno a render omaggio all’uomo “dalla limpidezza morale immensa”.
La lunga processione silenziosa di pugni chiusi, alzati, a salutare chi a viso aperto ha saputo portare avanti un’ideologia politica universale, fatta propria.
Ai tanti verrà chiesto il perché di un così dolore: "lui le cose le faceva capi’, era chiaro e lignare pure pe’ mme che sto ar mercato", era una guida, era un compagno.
Ma soprattutto era felice. Temeva di esser tacciato di tristezza, lui ci teneva a dire che sì era riservato, ma non triste.
Io non so cosa vuol dire provare una venerazione così forte per un ideale, per un leader, io non so neanche cos’è un leader. Tutto ciò mi sconvolge. E mi coinvolge. A tal punto da provare profonda invidia per il “noi credevamo”. Perché sì, basta domandare un po’ in giro per capire che le cose son cambiate, ma non si sono evolute. Ed io avrei tanto voluto conoscere quella porcellana sassarese, quel vetro di Alghero, raccontato da Benigni.
Avrei tanto voluto vivere Enrico Berlinguer.









in equilibrio nel vuoto. tutte virgole.

Decidiamo di rivederci, un po' per gioco, un po' per curiosità.
Sono passati sei anni, forse sette, dall'ultima volta. Non ci siamo lasciati benissimo, direi quasi male.
Il mood è quello di rincontrare un vecchio amico, scambiarsi un po' di opinioni, in tranquillità.
Eppure dovrei esser molto arrabbiata. Per quel che ha fatto, per quel che mi ha fatto in passato. La sorte vuole che io non porti rancore, non riuscirei a ricordarmene, quindi non importa, non più.
Decidiamo di vederci a pranzo, dopo gli impegni. La mattinata procede frenetica.
Arriva l'ora dell'appuntamento, meglio che lo raggiunga io, sono nella bolgia rossa di San Giovanni, impossibile arrivar qui.
Viaggio in metro. Le scale mobili battono un ritmo incalzante, mi assale il panico, ansia immotivata, inaspettata, uno tsunami non previsto. Provo a tranquillizzarmi: calmati, non c'è ragione, tutto sommato è una chiacchierata.
Me 2 risponde a me 1 : ecco brava, fai la saccente, a saperlo perché mi sento così? Beh, prendiamola con filosofia.
Esco dalla metro, cerco di capire qual è l'uscita giusta per via Nazionale, tra i labirinti grigi di un marmo. Salgo le scale, mi guardo attorno con fare confuso. Lui è lì, di spalle. Mi avvicino, mi riconosce, sorride. Digeriti i convenevoli, ci incamminiamo.
Cominciamo a parlare, l'ansia si stempera. Mi guardo attorno, c'è il sole. Parliamo del più e del meno, come da copione.
Ma perché corri? E' il mio passo, spiego.
Decidiamo di deviare per Monti. Non avrei chiesto altro, adoro quel quartiere, non ci metto piede da poco più di un anno. Conosce un posto carino. Entriamo. Arriva il cameriere, spiega che i piatti del giorno sono sulla lavagna.
Lui si volta. L'elenco è alle sue spalle, rapidamente sceglie. Io, eterna indecisa, impiego in media dai trenta ai sessanta minuti, per capire solo la denominazione del piatto.
Leggo, sento che mi sta fissando, non conosco le motivazioni, tuttavia continuo a leggere con naturalezza, come se non sapessi. È il mio gioco, mi diverte.
Ha il suo solito maglioncino, marchio di fabbrica. Noto però che la camicia è abbottonata fin su. Dettagli condivisi, e chissà perché non mi stupisce affatto (se un po' lo conosco, questo qui).
Mi parla della sua vita, io della mia, delle sue storie, dei suoi viaggi. Gli racconto il mio amore incondizionato per questa città, il mio legame viscerale con Roma, quanto questa città mi abbia aiutato a scappare, a trovare la mia dimensione. Lui mi guarda e: pensa se non fossimo andati via?
A volte, il caso. Perdersi nella città natale e ritrovarsi dopo sette anni nella capitale. Niente menate sul destino, ma bisogna riconoscere che fa strano.
Si continua a parlare. Affinità neurali riaffiorano. Ho sempre pensato fossimo più simili di quanto avremmo creduto. Ciò che meraviglia è che dopo sette anni, scelte diverse, vie diverse, esperienze diverse, sia ancora così.
Si è fatto tardi, gli impegni saltano. Cosa si fa? Facciamo un giro. Dove andiamo? Sull'Aventino, che domande.
Quanto è bello il Vittoriano, come ci si fa a stancare di una meraviglia?
Ci sei mai stata su, in cima? Non dirmi che si può salire? Sì, certo.
Andiamo.
E si va. Così, senza pensarci due volte.
In cima la vista è spettacolare: i Fori, il Colosseo, la Cupola, la chiamano la piccola grande bellezza. Restiamo lì, le rovine ai nostri piedi, e i tetti a far da abbraccio. Non so quanto.
Mi isolo, momento autismo. Succede sempre quando ho il tempo di fermarmi al cospetto dell'impero sacro. In questi momenti c'è  una fierezza prepotente che trabocca dai capitelli, e che impone una corrispondenza univoca. Non si può condividere, ma solo trattenerla il più possibile, egoisticamente.
Mi risveglio dal son(n)o. Chiedo di andare, voglio mostrargli l'Aventino, deve conoscere il mio posto.
Indico la strada, io stavolta. E questo soddisfa il mio timido ego, almeno un po'.
Arriviamo su, il Giardino è ancora più bello, dall'ultima volta. Sono convinta che questo posto non mi stancherà mai. Ci avviciniamo alla terrazza. Mi siedo sul marmo e lancio le gambe penzoloni. Se qualcuno mi spingesse precipiterei, non importa. Lui sembra un po' preoccupato, come tutti attorno. Ma avvertono la mia estrema tranquillità, o forse incoscienza, nello star seduta con le gambe nel vuoto, e tutto torna al suo ordine. Anche qui restiamo un po' a guardare in silenzio. Riprendiamo a parlare, nasce la diatriba: lui è ostinato, io di più.
Dice di conoscere l'Angelo Mai, era lì al parco quel giorno, io pure (ecco, appunto).
Voglio fargli vedere il Cupolone dalla serratura. Cavolo sei a Roma, non puoi non conoscere that one-point perpective. Discorsi all'elio sui massimi sistemi, assurdità che riescono a trovare il loro equilibrio, seppur precario. Decidiamo di tornare a Monti, per una birra. Altra nostra passione incondizionata.
Stavolta lascia parlare me, e io qui mi apro, quasi completamente, mi lascio leggere. Complice il luppolo, forse.
Intravedo nei suoi occhi un' ammirazione muta, credo sia la prima volta. E' bellissima.
Un'ammirazione che ho ritrovato spesso, ultimamente. Ma vederla in quegli occhi, fa tutto un altro effetto. E' un po' una rivincita, è la mia vita, il mio riscatto col mondo. E io ne vado fiera.
(è il momento di andare) mi accompagna, ci salutiamo. Come due vecchi amici, o forse no.
Non me lo chiedo, non m'importa. Ciò che conta è che non potevo chiedere di meglio da questa giornata.
Torno a casa, sono felice. Il giorno dopo mi scrive, mi dice che ha trovato i biglietti per il concerto dei Subsonica, altra nostra grande passione. Parterre. Apro una birra, brindo:
alla naturalezza ritrovata, in un soffio di secondo.



https://www.youtube.com/watch?v=6SfSef8Oyss

mercoledì 22 ottobre 2014

autismo inoltrato

Mi invita ad uscire, mi lascio convincere, non so perché, o forse perché no.
Gli dico che ho voglia di birra, è una vita che non ne bevo. Conosce un posto carino, dove ne servono di veramente buona. Mi fido, della birra, sia chiaro.
Ora è un po' impacciato, lo osservo. Abbasso leggermente la testa, parlo con gli occhi.
Adoro farlo, so che i miei occhi hanno una capacità comunicativa calamita. Come se stessero dicendo tanto, in silenzio, tutto quello che la persona di fronte vuole sentirsi dire. E questo mi piace.
Comincia a raccontarsi, si ferma, mi domanda, vuole sapere, tutto, di me. Io parlo, la birra è ottima, la cameriera molto gentile, ai vetri Keith Haring, in sottofondo i Clash: mi sento praticamente a casa, ha scelto il posto giusto. Parlo, e ancora parlo, mi fermo, temo di essere logorroica. No, lui mi chiede di continuare, vuole sapere tutto di me, obbedisco, continuo. Mi guarda: dove ti sei nascosta tutto questo tempo? Come ho fatto a non goderti prima? Latina ha bisogno di gente così. Così come? Qui la gente è piattume, si ferma al bordo, tu sei "wuof ua", sorrido, n'altro matto. Lui mi racconta che usa spesso suoni onomatopeici per descrivere le cose, aiutano a chiarire il concetto. Mi guarda, a lungo, dice che sono bella, che sorrido con gli occhi. Ma io l'ho già sentito, troppe volte, sono tentata a rispondere con la tipica frase affilata, ad hoc. Desisto. In fondo, è sempre bello sentirselo dire.
Finiamo la birra, decidiamo di camminare. Ho i tacchi, non m'importa, voglio camminare. Il vento è gelido, affetta le guance. Sono felice: finalmente è arrivato il freddo. Non aspettavo altro, l'autunno è mio, me lo sento dentro, sottopelle. Finalmente è arrivato, mi ha ascoltata. Sono una bambina al lunapark: guardo i rami dalla testa dondolante, le strade scavate, assaggio le folate, lo senti il rumore? Guarda il libretto dell'Ikea, è uno scaffale a due ripiani, credo, senza ante, povero, nessuno ci bada. Solo ora mi accorgo che lui è lì, in silenzio, mi guarda. Scusa, lo so che posso sembrare un po', così, ma sono momenti.
Il mio è autismo inoltrato.
Ride.
Spiego che fra un po' dovrò rientrare. Mi invita a sedere sulle panchine di un giardino dimenticato. Chiacchieriamo, stavolta il tono della voce è diverso. Tipico imbarazzo di quando la situazione cambia radicalmente: siamo ancora noi, ma questo è un non luogo, le intenzioni cambiano, il messaggio pure. Provo a buttar giù qualche frase, per sgonfiare l'imbarazzo. Si avvicina, mi bacia. Resto interdetta. Ma non mi scanso, non voglio. Non sono mai stata timida, tantomeno ora, alla soglia dei trenta. Il livello della Mia conoscenza di Me Mi permette di azzardare molto più facilmente: so dove, so come muovermi. (Ah, l'allitterazione)
Spiego che è arrivato il momento di andare. So quando è il momento di andare.
Ci avviamo verso casa, vuole rivedermi, al più presto. Non rispondo. Poggio la mano dietro il suo collo, mi avvicino, lo bacio. Poi mi avvio verso il cancello, senza voltarmi, so che lui mi sta guardando. Quanto mi piace giocare!
In ascensore, sorrido soddisfatta. Io sono così: visceralmente annodata a questo gioco di istinti, è più forte di me. Non è la persona, quanto la pulsione intellettiva che ne consegue. In amore si è egoisti, si sa.
Passano pochi minuti, trovo un messaggio: tornando a casa l'ha sentito, l'autismo inoltrato. Camminare con il vento in faccia, la luce fioca del Nicolosi, di notte, a ottobre.
Sorrido, bella vero, la sensazione di autismo inoltrato? Conferma. Poi richiede: chi ti ha mandata qui, da me? Non lo so. Forse il catalogo Ikea.




sabato 18 ottobre 2014

the soft voices die

Era un ragazzo, era incompreso. La brama di lettura lo uccise poco alla volta. Istinto amorfo, in un corpo deforme, blindato, cieco. Avanti da esser lasciato indietro.
L'amore per il Vero, la condanna alla certezza, il dubbio come salvezza. L'orrore per la prudenza, la  voglia di agire, la mancanza di coraggio.
Le carte diventano braccio: smania, disperazione, godimento, condanna, quiete.
La siepe, il limite, l'oltre murato. Dopotutto voleva vivere.
Gloria legata e negata: tanto alto d'intenti, tanto basso nel corpo.
Una ricerca spasmodica di amore, di vita, di contatto, negato.
Dove finisce la finzione, dove comincia la realtà? Non è dato saperlo. Camminare sulla linea di confine rende tutto più eccitante, tanto da volerne ancora.
Suona Apparat, suona. Cosicché il mio pensiero diventi il tuo suono. Non penso, io suono, ed è lui a parlare per me.
Vecchio e nuovo stridono, si strofinano; realtà e finzione si plasmano, simbiotiche.
And the soft voices die, suona Apparat, che io possa perdere il fiato, mi possa godere l'affanno.
La prudenza, la vostra àncora, il vostro porto sicuro. L'istinto, la mia condanna.
Non ridete di me, ci penso da sola.
(firmato ciao).



giovedì 16 ottobre 2014

#mela

"Passeggiare i muri, i tuoi occhi primavera, canottieri in canottiera"
Mattinata afosa e turbata , tuttavia va un po' meglio.
Stanotte ho visto i suoi occhi, dietro i suoi occhi, era da tanto. Son belli, belli come sempre.
E non glielo dirò, come sempre, come tutto.

"Chiamami come vuoi, anche Roberto, basta che il mio nome faccia rima con concerto".

https://www.youtube.com/watch?v=jv4a6NWEFV0




mercoledì 15 ottobre 2014

Fiore

Non crede all’onomastico, ma è gentile. Prega la Madonna, le dicono. Certo. Ma poi non lo fa, o lo fa per finta.
Non piace la Madonna, le ricorda un Ex voto. A lei piace Lui, il figlio, quello che si è immolato, col sangue nel bicchiere.
Fiore non è fatta per le donne. Madre perdonami, ma io sono uomini.

La vita è stata tirchia, fin da piccola. I punti rossi, che nessuno riusciva a spiegare: uscivano sulle gambe , ma faceva male lo stomaco.

Pubertà turbolenta, la sua: voglio stare coi grandi, gli stessaetà proprio no.
Fiore aveva 16 anni, lui 25, aveva la macchina.
Fiore aveva 17 anni, lui 26, aveva la moto. E così, un flusso. A tapis roulant.
Il primo botto, preso con filosofia. “Ragazzi la birra è strana” “Bevi Fiore”. Le altre Maria Maddalena ora sono nel panico, un panico pregno di ormoni. Fiore stoica beve, in qualche modo torneremo a casa, verranno a prenderci.
Diciotto anni, coi sogni appesi. La professoressa con le calze rotte, carta stampata al braccio, sentenzia. La madre ha delegato lei, parvenza di saggezza. Devi essere forte, sei grande e questa cosa puoi affrontarla.
S’annebbia il già visto, sotto l’acqua salata, ti bruciano gli occhi.
Per la prima volta, Fiore ha la sensazione buco: tutto si accartoggia, un vuoto che pesa cento chili e che sbatte a terra. Non cade, in barba alla gravità. Non cadrà, spesso.

Fiore ha solo 18 anni.

L’università: devi studiare, ma è tutto frastuono. Chiavi a terra, porte chiuse, i NO, la volontà che si sforza e rigetta il reale appuntito. Lexotan, Serenase, Lexotan, Keppra. Vetro-petrolio-vetro-acquaraggia. Già, tanta raggia.
Obama presidente alla tv, è importante, fate silenzio.
Fate silenzio perché la testa pesa, fate silenzio perché io voglio stare coi libri sotto al braccio: Salinger e Fenoglio. Fate silenzio perché non si può star fuori la sera, con l’inferno dentro le mura. Fate silenzio perché ha solo vent’anni.

Fiore ha solo 20 anni.

Tempi sballati, nullafacenza: l’università è bella, per chi non ha cazzi per la testa.
Viaggio, viaggio, distributore inglese, spagnolo, portoghese. Ora è un’altra, viaggia, riparte, ma poi torna.
E girare la chiave nella serratura: il peso-macina. Lexotan. Keppra. Si richiude, e ri-esce.
Fiore è in giro, da sola il treno. Da sola gli alberghi, da sola i tram. Le città si conoscono così, cammina.

Fiore ha 22 anni. A Firenze da sola. A Milano da sola. Cammina.

Boom boom, chiudi la porta a chiave, lui dov’è? Chi scappa. Levategli la patente. Sarà un problema. S’incazzerà. Sarà un dramma. Lexotan, Keppra e Serenase.
Fiore mette il calzino rosso e l’altro blu, ora ha i capelli come quelle del circo, ma dove vai? Cosa è quello? Il vestito di nonna? Che cazzo vuol dire vintage? Ma come ti trucchi? Ma che quadri vuoi vedere? I libri che? I viaggi che? Ora basta, esci dal tuo mondo e torna alla vita reale. Fiore non essere strana. Fiore perché fai così? Devi uscire il sabato, il sabato è fatto per uscire. Fiore così ti fai male. Fiore non farti queste cose. Smettila di fare quella che guarda in su. Fiore esci- Fiore entra.

Ha solo 23 anni. Una valigia, stavolta grande.

Dove vai? Non lo so.
Sei mia sorella, devi aiutarmi. Faccio quello che vuoi. Fiore basta, non potrai scappare in eterno. Va bene, tu sei più brava, va meglio ora?
Smettila, fai soffrire chi ti sta attorno. Giuro: ora faccio la brava, basta cazzate. Lasciate a Fiore solo il rosso e il blu. In fondo non chiede altro: calzini spaiati.
Faccio la brava, metto da brava. Giusto così. Deve andare così. Come va lìggiù? Male, sempre peggio.
Il buco: il fuso entra nello stomaco, esce dalla schiena. Va tutto bene, continua: tu devi, va così. 
Ma lasciatele i calzini spagliati.

Fiore ha solo 24 anni.

Trantran, metro, corri, luci, cera, aranci e pietre. Tran: tram, luci, sesso e barbiturici, birra, asfalto, sesso e banconi. Quadri, verde. Nella città che ama. Lì dove vuole stare.
Fiore cammina da sola. Sta bene sola. Cammina, e cammina ancora.
Stava bene sola quando ha cominciato a star male, tanto male, troppo male.
Un calzino rosso e uno blu. Il (ver)detto: Fiore è un mutante bicolore. Dai, non scherzare. Un’eroina. Non scherzo. Quelle cose che metti in ordine GSTM1 e torna tutto a(p)posto? Negativo.
Va bene. Fiore ora è una roccia monca. Deve esserlo.
è sola nella stanza seria, è sola con la sentenza di toro bianco seduto. Lei dice va tutto bene, brutto pinguino stetoscopico. Le viene detto: cambia vita.
E cambiamola sta vita. L’hai scelto tu? No, la vita.

Voci di onde radio: sii forte, non può essere altrimenti. Noi siamo di un’altra pasta, non fare la molliccia.
No, scherzi? Se supera questa, sola, è fatta. Allora è fatta. Non si supera, ma ti sfido, ti prendo per le corna.

Fiore ha 25 anni. E’ solo una ragazza coi calzini spaiati.

Corri, treno, libri, libri, treno. Non c’è tempo. Non si concede, il tempo. Ma io sono stanca. Corri, non c’è tempo. Ma io, magari gli altri. Gli altri sono altrove. Mica che stanno dentro te? Non rompere. Niente ma.

(in differita) Come va? Ma come fai? Hai i controcojoni, donna. Si sente spesso, lo dicono spesso.
Tutto molto semplice: Fiore non ha avuto scelta. Dici? No. Diglielo. No, niente alibi. Ce la faccio. Toro bianco seduto, ti prendo per le corna.

Io lo so che lui aspetta.
Telefono. Quella telefonata, è nella scatola nera del cervello. Ma perché? E mo come faccio?
Nonostante tutto, Fiore lo fa.
Come ha fatto? Nessuno lo sa. Coi controcojoni del vedi sopra, probabilmente. E’ martedì.
Ora corri, Fiore corri sulle parallele di rame e acciaio.

E’ venerdì. E’ notte. Ora è tra le sue braccia. Sono le tre. E’ notte. Tra le sue braccia, per un'ora, tra le sue braccia. Non lo toccate. Lasciate a Fiore il tempo di espiare le colpe. Chiudo io la sua bocca, non lo toccate. Per un'ora. Il braccio si addormenta.
Mi ha aspettato. E’ notte. Fiore ora è calma. Insieme a lui, tra le sue braccia, ha aspettato che lei tornasse a casa.

Fiore ha 28 anni. E voleva solo essere una ragazza.