venerdì 2 marzo 2018

Come da tradizione: spunti sulla nuova creatura di Zerocalcare.

Si rinnova ancora una volta l'aperitivo a Rebibbia. E già così pare 'n ossimoro.
Giunta al quarto appuntamento con i libri di Michele Rech, la prima considerazione è: ma farli più leggeri, no? Questo Interrail narrativo, nella mia borsa, comincia a creare intoppi sui binari della spalla, ho un'età.
Veniamo al dunque, "Macerie Prime" non mi ha entusiasmata. Niente fuochi d'artificio stavolta, niente finale col botto, niente languorino nel voler assaggiare la pagina successiva.
C'è da ammettere che Zerocalcare con "Dimentica il mio nome" e "Kobane calling"aveva abituato i lettori ad una valanga incontrollabile di emozioni forti, spesso controverse; a iniezioni massicce di pensiero critico e spunti di riflessione, che ancora oggi spingono a far(ti) delle domande. Insomma, una bella dose di cose belle.
Stavolta Zerocalcare ci riassume a Rebibbia, a tempo determinato, raccontandoci cosa ne è stato di Sara, Katja, Deprecabile e Cinghiale, senza mai rinunciare all'immancabile ansia degli accolli.
Scazzi tra amici di sempre, che si trovano a dover fare i conti con la vita dei grandi, con i fallimenti e il senso di ingiustizia sociale.
Sarò cattiva e andrò contro l'amore (in)condizionato per Michele Rech e per i figliocci Bao, ma uffa! Già visto, già letto. Ci risiamo, Armadillo compreso. Solo dieci anni più in là. E non so se ho voglia di sapere come va a finire.
Calcare perdoname por mi critica loca, ma tant'è.
Dopotutto l'idea di ritrovarmi Secco come collega, mette ansia, ma fa pure sorridere, un po'.


domenica 22 maggio 2016

scorci Dalle rovine

‹‹Mi piacerebbe che lo leggessi›› disse porgendolo a Rivera.
Rivera guardò il cartone grigio della carpetta, sul quale era scritto a pennarello Dalle rovine. Sotto, in caratteri molto più piccoli, c'era il nome dell'autore.

‹‹Ti chiami Alexandre Tapia?›› chiese Rivera.

‹‹Così mi chiamo›› disse Alexandre accendendosi una sigaretta. Una nube gonfia di fumo verdastro si disperse a fatica nell'aria calda del soggiorno.
‹‹Puoi leggerla senza problemi. È in italiano, l'ho tradotta anni fa per un amico››.
Rivera sbirciò i fogli, ingialliti e martoriati da impenetrabili muri di testo battuto a macchina.
‹‹La lingua non conta›› disse Alexandre. ‹‹Un tizio una volta ha detto che la sua unica patria era la sua lingua, ma per me sono stronzate. La lingua è un muscolo. Serve a stare al mondo, a farti rispettare. Se la usi come si deve, o incontri qualcuno che sa usarla, allora ti diverti. La patria di un uomo sono i germi della sua saliva››.
(Luciano Funetta, Dalle rovine, Tunué)

Qualsiasi significato si voglia spillare a questo scorcio di racconto, c'è una sola cosa che viene da pensare al termine della lettura di Dalle Rovine: Luciano Funetta la lingua la sa usare bene, molto bene. Mi riferisco a quella scritta, il mucchio di grafemi su carta, per intenderci. Parole che scivolano, strisciano, si attorcigliano alla gola, con un'eleganza che attira e tira, proprio come i serpenti di Rivera.
Un libro che cattura, senza sbalzi né sbavature, avvincente nel suo garbo, cazzuto nella trama.
Mai banale, mai scontato, e soprattutto mai volgare. Parlando dell'emisfero del porno, lo scivolone nello stereotipo è ad un passo. Non per Luciano Funetta, che riesce a sviscerare una trama tosta, con toni baritonali.
E no, non siamo di fronte al romanzo di formazione, al lungo percorso fatto di mille e una pubblicazioni, no (anche se di racconti pubblicati alle spalle ne ha, perché i miracoli li fanno i santi). Ma si tratta, pur sempre, del suo primo romanzo. Insomma, se questo è lo svarione iniziale, posso solo aspettarmi tanto di buono dalla ditta Funetta.
Il merito va anche all'editing e a chi ha saputo vederci qualcosa di buono in questo romanzo.
Che, a mio modesto issimo parere, merita a pieno titolo il post-it di "papabile" allo Strega.
Tien' a ment', direbbe il vecchio fesso.



sabato 23 aprile 2016

Effetto Kobane calling

Ogni viaggio ti lascia qualcosa dentro, ma da uno come Zerocalcare una cosa così non te l’aspetti. 
E forse è vero: queste sono cose che ti cambiano, nessuno escluso.
Sono ancora scossa.
È un libro carico, dentro c’è tanto. 
C’è la capacità di raccontare la storia di tanti, di un popolo se ci pensi, vista con gli occhi di chi si fida(va) solo di Rebibbia; c’è il sorriso che accompagna ogni libro di Michele, una risata almeno te la devi fa, perché non è che per racconta’ le cose toste devi per forza usare il metodo Barbara D’Urso; c’è la geopolitica spiegata in un modo accessibile e comprensibile a tutti, ma proprio a tutti, pure alla Sciura Maria, della quale mi parlavi; c’è il romanesco, che per me è ‘na botta di vita, perché suona bene e perché è il mio modo di restare aggrappata a quella realtà che tanto mi manca; ci sono quei volti, che sembrano così simili al mio, e che in realtà lo sono, solo con più cazzimma; c’è quel cielo generoso di stelle, che Michele è riuscito a far parlare usando solo il bianco e il nero.
E poi ci sei tu.
Risparmio il giudizio tecnico, per decenza, la mia. 
Un'ultima cosa: ho letto Zerocalcare e vorrò leggerlo ancora, ancora una volta.




mercoledì 23 dicembre 2015

Babbo Natale risp sul mio.

Caro Babbo Natale, quest'anno ho deciso di scriverti la letterina, così proviamo a risolvere una volta per tutte la questione regali demmerda.
Se visualizzerai e non risponderai, io capirò, perché si sa che i primi a subire le conseguenze degli straordinari lavorativi sono i contatti whatsapp, però ti chiedo almeno di spargere la voce tra i miei amici.
Come tu sai, io non so fingere e se una cosa mi fa schifo me lo si legge in faccia, ma non voglio che altri ci restino male, quindi sarebbe il caso di eliminare il disagio sul nascere.
Ti allego la lista, così tu la screenshotti e la invii al gruppo di riferimento, come da accordo tacito.
LISTA:
- Un libro di Andrea Pazienza, a piacere, se poi sono più di uno non sarebbe male, ora sono in ristampa con Fandango.
- Un Garmin Forerunner GPS, non necessariamente gli ultimi usciti che costano una rata di mutuo.
- Qualsiasi tipo di indumento ricollegabile al running, la mia ultima fissa. Se poi siete proprio buoni, le Mitzuno pare che...
- The New Yorker, Febbraio 2014, una delle più belle copertine di sempre.
- Sette brevi lezioni di fisica di Carlo Rovelli, vuoi mettere l'irresistibile fascino dei buchi neri?
- Un weekend in quella casa Airbnb con tante finestre sui deserti di luna, in Islanda, e letti bianchi su pavimenti di legno grezzo.
- Un distributore automatico tascabile di caffè lungo, in alternativa d'orzo.
- Un bombilla di mate, con mate annesso.
- Una pipa, rigorosamente appartenuta ad una donna.
- L'impronta digitale di un serial killer.
- Le domande splendidamente assurde dei bambini; sì lo so, ne ho sentite tante, ma non stancheranno mai.
- Il sorriso delle persone che hanno dimenticato come si fa; è un evento talmente raro, che provoca dipendenza.
- La forza di dire no ad un gioco, divertente, ma che richiede investimenti preziosi, che no, non portano a nulla, se non a farsi male.
- La libertà di dire sempre ciò che si prova e ciò che si pensa; questa è difficilissima da trovare, lo so, ma abbiamo fatto 30...
- La curiosità di sempre, dose giornaliera di umiltà intellettuale.
- La determinazione di passarci su, e inserire la retromarcia.
E se proprio t'avanza:
- Il gene che non ho, l'altro mozzicato me lo tengo, perché un gene mutato fa figo.
Ecco, questo è quanto.
Credo di non aver tralasciato nulla.
Ah White-Bearded Santa, se non dovessero risponderti, non imbronciarti, probabilmente ti avranno bloccato perché si sa che i grandi non possono credere alla tua barba bianca, per questione di convenzioni. Non comparirà la doppia spunta, ma tranquillo, ad ogni modo ti dovrò un favore.

martedì 15 dicembre 2015

la sobrietà di un pianeta famoso

Ci sono giorni in cui Fiore sgomita, e la sua predominanza diventa inevitabile.
Giorni in cui sbatti imprecazioni crude ad un cumulo di pixel. Giorni di massima saturazione, oltre il quale inciampi in pozzanghere di rabbia.
Allora decidi di fare l'unica cosa che da mesi ti riesce: correre.
Se devo passare l'intero pomeriggio in trame ipotetiche e magoni incazzati, no. E vaffanculo, io esco e corro.
Ci sono spifferi inconsistenti da lasciare sull'asfalto, attese e rodimenti di culo.
Ho una pazienza infinità, si sa, smisurata, che si autoriproduce, continuamente (non potrei fare il mio lavoro, altrimenti), ma a tutto c'è un limite, e quel limite è dettato dalla consapevolezza.
[E poi c'è un'icona bella, bellissima, che se mi avessero detto, avrei risposto: ma figurati!
Però si sa: dove c'è un sorriso troppo pronunciato, arriva Fiore a dare il peggio.
Perché in questi momenti, Fiore è l'unica arma di difesa:
"Allora il piano è il seguente: devi farti allontanare, perché Masaria, ammettiamolo: sei uno sciglio di femmina".
Missione compiuta Fiore, ma consentimi di dirti che stavolta hai fatto una grandissima cazzata!]
Esco di casa, frettolosamente, correre è l'unico placebo che ora conosco e che, guarda un po', funziona. Oggi sarebbe dovuto esser il giorno di riposo, come da imposizione, ma non riesco.
I primi km sono sempre un muro, il fiato arranca, è un lavoro lungo. Ma oggi 'sti cazzi, non c'è spazio per tabelle e m/k: io corro perché non so piangere, e in qualche modo 'sto groviglio incazzato devo buttarlo fuori. Mi fermo quando ne ho voglia, mi guardo intorno, riprendo a ritmo confuso.
Momenti in cui tutto sparisce: ci sei solo tu, il tuo corpo e l'attorno indefinito.
E la triade richiede talmente tanto sforzo che proprio non riesci a pensare ad altro. Un toccasana.
Questo per un tratto. Arriva poi il punto in cui spezzi il fiato, è un momento bellissimo, che da solo vale tutto lo sbattimento. Il respiro rema a favore, e allora vai. Le gambe spingono, ingorde di strada.
Sorridi.
Ma basta una curva.
Dietro l'angolo, il vialone insolitamente deserto. A far da padrona, la luce del sole, che sobria e composta ti invita a fermarti. Tu c'hai provato a non, ma lei ti chiede di farlo, è il caso.
L'ascolto, mi fermo e mi siedo. Non dice nulla, è lì, sa che questo abbasta.
E allora risale tutto, ma proprio tutto. Cose belle e cose brutte. Non resta che stare in silenzio concedere al tutto il diritto di parola.
Vorrei dire che è stato un confronto bello, degno delle migliori riunioni di condominio; ma non lo è stato, una grandissima merda, in verità, come le migliori riunioni di condominio.
Al termine dell'arringa di gruppo, fisso l'ultimo monologo con una puntina ragionevole al muretto a secco, saluto le incomprensioni e riparto.
Questa non è una storia a lieto fine: torno a casa, e sto comunque di merda. L'assenza è una costante, ho imparato a conviverci, ma non a domarla. Non ci si abitua mai, di qualsiasi natura essa sia.
Ogni tanto, però, ti capita di girare l'angolo e trovare una stretta di sole.




sabato 21 novembre 2015

La chiamano generazione Bataclan

In cuffia gli Eagles of Death Metal. Così mi ritrovo a pensare che io, un gruppo così, sarei andata a sentirlo, eccome.
Ci penso da quando è successo il fattaccio.
La mia memoria visiva manda in loop una piccola didascalia sotto una foto, che da giorni gira sul web: fan de musique. L'hanno chiamata generazione Bataclan, quella che venerdì sera era nel locale parigino a godersi una pinta di musica dal vivo. Così, succede che non faccia fatica alcuna a riconoscermi in quei sorrisi ignari. Questo mi manda ai matti.
On air  High Voltage, quelle persone sono io. 
Quelle che esiste un BrickLane in tutte le città, portamici, tra sushi e un caffè marocchino, tra biblioteche in ghetti ebraici e bombilla di Mate. Sono quelle degli incontri letterari a casa di uno sconosciuto, e del mercoledì vegano. Sono quelle della barba lunga e baffi a punta; dei filtri di Instagram, tra un sorso e una risata con lo sconosciuto accanto. Sono quelle dei viaggi Discovery, che magari festeggiano la laurea con un lancio in tandem. Quelle che il venerdì sera è concerto live, tra una birretta e un Moscow mule, un largo cappello maschile di traverso e rossetto rosso sulle labbra. Quelle che domani è sabato e stasera voglio non pensare. Quelle del bello st'accordo provo ad inserirlo nel mio pezzo. Quelle delle luci troppo basse e la risoluzione pessima. Quelle del vado ad ascoltare i miei amici suonare, vieni con me? Son bravi. 
Insomma, quelle che ho trent'anni e solo ora comincio a gustare il buono delle cose, senza fretta.
On air Stuck in the Metal with you mi sta dicendo che continueremo a fare capolino nelle prime file, cantando canzoni che non conosciamo, muovendo la testa fuori tempo. Al termine di ogni pezzo alzeremo le corna in alto, e l'unica cosa che spareremo sarà un urlo liberatorio. 
Peace, Love & Death Metal.




venerdì 30 ottobre 2015

Probabilmente 21 VIII 15

                                                                                                                       probabilmente 2:05 p.m.

Ai Fori il magone arriva ad un peso specifico insostenibile, e mai avrei pensato.
Roma è la conferma che ciò che credevi scontato non si lascia scontare. Ogni volta stupisce.
Rivivo tutto, gli eventi s'incastrano come a stropicciare un libro, per un attimo penso di aver fatto una cazzata, la scelta sbagliata. Mi convinco del contrario.
Mi alzo, il magone ora è diventato piombo, le lacrime renderebbero tutto più facile, a saperle attivare. Il pianto dentro è soda caustica, e io non posso concedermi l'ennesima ulcera sentimentale. Meglio camminare.

                                                                                                                        probabilmente 3:19 p.m.

Cartoline mentali.
Ora, terra di Siena, a Roma. Quarantagradi. L'arsura, il vento che soffia sollievo.
La parte che dà verso Monti è luminosa, nobile, seppur decaduta. Si mostra pudìca, a nasconder i reali intenti.
Sulla destra, proseguendo, i Fori: sornioni, dal ronfo bonario.
Il vento caldo, ancora. Ci si illusiona che rinfreschi.
Sento già la mancanza di questi momenti, prima ancora che giungano al termine e si eclissino.
Oggi non andrò a Madonna dei Monti, sarebbe dura, lì ci sono troppi ricordi sotto chiave. Non sono posti, sono luoghi, i miei. E me ne rendo conto ora, nel momento in cui me li strappo da dosso.


                                                                                                                        probabilmente 4:07 p.m.

Sono giunta, attraverso il roseto. Sono tornata, again.
Ho deciso di chiudere il cerchio qui, dove tutto ha avuto inizio.
Questo posto l'ho sempre sentito mio, dalla prima impronta nel pietrisco malmesso. Non credo sia per una motivazione speciale, forse per empatia. Il Giardino degli Aranci ha deciso di adottarmi, da subito, e di mostrarsi in tutta la sua bellezza. Ed è proprio il suo orgoglio, fatto mio, che mi ha spinto a mostrare l'Aventino, i suoi colori, i suoi silenzi, le sue nicchie massoniche a tutte le persone che hanno condiviso con me questo shottino di vita.
Qui mi sono innamorata di Roma, qui ho tatuato una promessa carnale, un accordo di intesa e di voglia. Mi sono affidata e fidata. Ed è qui che concludo.
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