martedì 28 ottobre 2014

in equilibrio nel vuoto. tutte virgole.

Decidiamo di rivederci, un po' per gioco, un po' per curiosità.
Sono passati sei anni, forse sette, dall'ultima volta. Non ci siamo lasciati benissimo, direi quasi male.
Il mood è quello di rincontrare un vecchio amico, scambiarsi un po' di opinioni, in tranquillità.
Eppure dovrei esser molto arrabbiata. Per quel che ha fatto, per quel che mi ha fatto in passato. La sorte vuole che io non porti rancore, non riuscirei a ricordarmene, quindi non importa, non più.
Decidiamo di vederci a pranzo, dopo gli impegni. La mattinata procede frenetica.
Arriva l'ora dell'appuntamento, meglio che lo raggiunga io, sono nella bolgia rossa di San Giovanni, impossibile arrivar qui.
Viaggio in metro. Le scale mobili battono un ritmo incalzante, mi assale il panico, ansia immotivata, inaspettata, uno tsunami non previsto. Provo a tranquillizzarmi: calmati, non c'è ragione, tutto sommato è una chiacchierata.
Me 2 risponde a me 1 : ecco brava, fai la saccente, a saperlo perché mi sento così? Beh, prendiamola con filosofia.
Esco dalla metro, cerco di capire qual è l'uscita giusta per via Nazionale, tra i labirinti grigi di un marmo. Salgo le scale, mi guardo attorno con fare confuso. Lui è lì, di spalle. Mi avvicino, mi riconosce, sorride. Digeriti i convenevoli, ci incamminiamo.
Cominciamo a parlare, l'ansia si stempera. Mi guardo attorno, c'è il sole. Parliamo del più e del meno, come da copione.
Ma perché corri? E' il mio passo, spiego.
Decidiamo di deviare per Monti. Non avrei chiesto altro, adoro quel quartiere, non ci metto piede da poco più di un anno. Conosce un posto carino. Entriamo. Arriva il cameriere, spiega che i piatti del giorno sono sulla lavagna.
Lui si volta. L'elenco è alle sue spalle, rapidamente sceglie. Io, eterna indecisa, impiego in media dai trenta ai sessanta minuti, per capire solo la denominazione del piatto.
Leggo, sento che mi sta fissando, non conosco le motivazioni, tuttavia continuo a leggere con naturalezza, come se non sapessi. È il mio gioco, mi diverte.
Ha il suo solito maglioncino, marchio di fabbrica. Noto però che la camicia è abbottonata fin su. Dettagli condivisi, e chissà perché non mi stupisce affatto (se un po' lo conosco, questo qui).
Mi parla della sua vita, io della mia, delle sue storie, dei suoi viaggi. Gli racconto il mio amore incondizionato per questa città, il mio legame viscerale con Roma, quanto questa città mi abbia aiutato a scappare, a trovare la mia dimensione. Lui mi guarda e: pensa se non fossimo andati via?
A volte, il caso. Perdersi nella città natale e ritrovarsi dopo sette anni nella capitale. Niente menate sul destino, ma bisogna riconoscere che fa strano.
Si continua a parlare. Affinità neurali riaffiorano. Ho sempre pensato fossimo più simili di quanto avremmo creduto. Ciò che meraviglia è che dopo sette anni, scelte diverse, vie diverse, esperienze diverse, sia ancora così.
Si è fatto tardi, gli impegni saltano. Cosa si fa? Facciamo un giro. Dove andiamo? Sull'Aventino, che domande.
Quanto è bello il Vittoriano, come ci si fa a stancare di una meraviglia?
Ci sei mai stata su, in cima? Non dirmi che si può salire? Sì, certo.
Andiamo.
E si va. Così, senza pensarci due volte.
In cima la vista è spettacolare: i Fori, il Colosseo, la Cupola, la chiamano la piccola grande bellezza. Restiamo lì, le rovine ai nostri piedi, e i tetti a far da abbraccio. Non so quanto.
Mi isolo, momento autismo. Succede sempre quando ho il tempo di fermarmi al cospetto dell'impero sacro. In questi momenti c'è  una fierezza prepotente che trabocca dai capitelli, e che impone una corrispondenza univoca. Non si può condividere, ma solo trattenerla il più possibile, egoisticamente.
Mi risveglio dal son(n)o. Chiedo di andare, voglio mostrargli l'Aventino, deve conoscere il mio posto.
Indico la strada, io stavolta. E questo soddisfa il mio timido ego, almeno un po'.
Arriviamo su, il Giardino è ancora più bello, dall'ultima volta. Sono convinta che questo posto non mi stancherà mai. Ci avviciniamo alla terrazza. Mi siedo sul marmo e lancio le gambe penzoloni. Se qualcuno mi spingesse precipiterei, non importa. Lui sembra un po' preoccupato, come tutti attorno. Ma avvertono la mia estrema tranquillità, o forse incoscienza, nello star seduta con le gambe nel vuoto, e tutto torna al suo ordine. Anche qui restiamo un po' a guardare in silenzio. Riprendiamo a parlare, nasce la diatriba: lui è ostinato, io di più.
Dice di conoscere l'Angelo Mai, era lì al parco quel giorno, io pure (ecco, appunto).
Voglio fargli vedere il Cupolone dalla serratura. Cavolo sei a Roma, non puoi non conoscere that one-point perpective. Discorsi all'elio sui massimi sistemi, assurdità che riescono a trovare il loro equilibrio, seppur precario. Decidiamo di tornare a Monti, per una birra. Altra nostra passione incondizionata.
Stavolta lascia parlare me, e io qui mi apro, quasi completamente, mi lascio leggere. Complice il luppolo, forse.
Intravedo nei suoi occhi un' ammirazione muta, credo sia la prima volta. E' bellissima.
Un'ammirazione che ho ritrovato spesso, ultimamente. Ma vederla in quegli occhi, fa tutto un altro effetto. E' un po' una rivincita, è la mia vita, il mio riscatto col mondo. E io ne vado fiera.
(è il momento di andare) mi accompagna, ci salutiamo. Come due vecchi amici, o forse no.
Non me lo chiedo, non m'importa. Ciò che conta è che non potevo chiedere di meglio da questa giornata.
Torno a casa, sono felice. Il giorno dopo mi scrive, mi dice che ha trovato i biglietti per il concerto dei Subsonica, altra nostra grande passione. Parterre. Apro una birra, brindo:
alla naturalezza ritrovata, in un soffio di secondo.



https://www.youtube.com/watch?v=6SfSef8Oyss

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